Servire in un’epoca di dubbio: Perché dobbiamo studiare sia la storia sia l’apologetica

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Dopo essere cresciuto in una famiglia cristiana, ho iniziato ad avere dubbi sul cristianesimo al college. Mentre ero alle prese con alcune domande che mi assillavano, la cosa che mi ha dato sollievo è stato rendermi conto che non ero l’unico. La chiesa aveva sollevato, riflettuto su e risposto a domande simili per 2.000 anni. I cristiani non avevano nascosto la testa sotto sabbia, cercando di ignorare queste sfide. Anche se le chiese nelle quali sono cresciuto non mi hanno mostrato queste risorse intellettuali, scoprii che la chiesa possedeva una ricca tradizione di investigazione critica che avrebbe potuto incoraggiare la mia fede nei momenti difficili. Ho imparato che, per affrontare i miei dubbi, dovevo guardare indietro prima di poter andare avanti.  Negli ultimi anni, una tendenza in crescita è emersa tra molti teologi evangelici e pastori per recuperare le risorse teologiche del passato e applicarle al presente. Come Gavin Ortlund ha recentemente scritto: “Il recupero della teologia è in crescita nell’evangelicalismo”. Un simile recupero più specifico all’apologetica potrebbe tuttavia essere anche al servizio della chiesa per aiutare quelli che combattono con il dubbio e per stimolare risposte creative a nuove domande.

Suggerisco di iniziare recuperando due caratteristiche dell’apologetica della chiesa primitiva.

1. Recuperare il ruolo del Pastore-Apologeta

Molti teologi e pastori sono esitanti, se non contrari, ad accettare il ruolo di apologeta. Eppure la storia della chiesa ci insegna che questa reticenza è più uno sviluppo moderno. Come Avery Dulles osserva: “Dopo il primo quarto del secondo secolo . . . l’apologetica diventò la forma più caratteristica degli scritti cristiani”.  Non sorprende dunque che fossero pochi i leader della chiesa primitiva il cui corpus di opere non includesse contributi apologetici. Ireneo, vescovo di Lione, si impegnò contro l’eresia Gnostica ed è conosciuto per la sua geniale e coraggiosa difesa dei quattro Vangeli. Teofilo, vescovo siro di Antiochia, difese la fede cristiana con gli Ebrei facendo appello alle sue radici veterotestamentarie. Atanasio, vescovo di Alessandria, fu un convinto difensore della divinità di Cristo. Questi pastori-teologi assunsero istintivamente il ruolo di apologeti come parte della loro identità di ministri del vangelo.

Dal momento che la chiesa primitiva era una minoranza strana in un contesto pluralistico, la posta in gioco era troppo alta perché i pastori non fossero anche degli apologeti.

Dato che il pluralismo contemporaneo presenta paralleli molto più vicini con il mondo,pieno di pressioni trasversali di Ireneo e Agostino che con la Cristianità di Tommaso d’Aquino e Calvino, la teologia pubblica di questi primi pastori-apologeti potrebbe risultare più illuminante per la nostra età secolare. Che cosa vorrebbe dire per un apologeta tardo-moderno essere formato nel crogiolo del ministero pastorale e influenzato dai primi leader cristiani che costituivano una minoranza all’interno di una cultura ostile?  

Se a questa domanda venisse data maggiore attenzione, potrebbe aiutarci anche a orientare e portare avanti alcuni dei dibattiti metodologici che sono stati al centro dell’attenzione nelle discussioni in campo apologetico. Dato che l’apologetica è una disciplina cruciale e pratica, il nostro approccio deve essere applicato e verificato sul campo anziché essere semplicemente proposto in classe.

Per esempio, l’opera di Agostino La città di Dio fu scritta in seguito alla richiesta di aiuto da parte di un amico che voleva persuadere un pagano e rispondere alla critica comune che il cristianesimo fosse un male per l’impero. Agostino unì in modo pastorale la filosofia, la storia e la teologia per rispondere ai critici, cercare le pecore perdute e rafforzare la fede dei deboli. Con questo stesso spirito, i pastori e i missionari— liberi dal tribalismo apologetico del mondo accademico — potrebbero assumere il ruolo di guida nell’applicare l’apologetica all’evangelizzazione e alla predicazione ogni settimana, aiutandoci così a superare alcune delle lotte territoriali che hanno infestato queste discussioni.                                                                     E inoltre, chi aiuterà quelli che, come me stesso da giovane, non sono al corrente della ricca tradizione intellettuale cristiana e stanno combattendo con le pressioni trasversali di un mondo post-cristiano? Anche se uno preferirebbe non vedersi affibbiata l’etichetta di apologeta, quando vengono poste domande sulla sofferenza e sul male o sull’opprimente etica biblica, quale cristiano non vorrebbe essere in grado di aiutare la persona che pone tali domande? In un’età sempre più secolare, la posta in gioco è troppo alta perché i pastori non siano degli apologeti. 

2. Recuperare una “Teologia Naturale” per la Post-Cristianità  

Per molti, “teologia naturale” può essere una designazione che genera confusione, perché con questo termine si intendono cose diverse. Il curatore insieme a me del libro The History of Apologetics, Alister McGrath, ha proposto sei significati alternativi del termine (si veda Re-Imagining Nature). Mentre lo studio della storia dell’apologetica ti permetterà di vedere con maggiore chiarezza la posta in gioco in questi diversi approcci, può anche migliorarti per renderti attraente e saggio nell’applicare la tua teologia. 

Suggerisco due assiomi per farci da linee guida. Primo, c’è “un'evidenza” nell’universo che dichiara la gloria di Dio (Salmo 19); la storia della chiesa ci ricorda che questa viene accettata come una dottrina cristiana classica. Secondo, la storia ci insegna anche che nessuna visione proviene dal nulla. Mentre i cieli dichiarano la gloria di Dio, gli uomini interpretano questi cartelli indicatori della creazione in modi diversi. La domanda, perciò, è questa: come dovremmo usare le argomentazioni che utilizzano gli elementi della creazione e della natura religiosa di creature fatte a immagine di Dio in un contesto post-cristiano?  

La chiesa primitiva aveva il suo contesto, che studiava e usava per le sue argomentazioni. Talune argomentazioni appaiono più plausibili quando il platonismo viene dato per scontato, o l’esistenza di angeli e demoni è vista come una cosa ovvia. Tuttavia non stiamo vivendo nella stessa atmosfera culturale. Nella nostra età tardo-moderna, questi presupposti metafisici non sono più considerati naturali. Pertanto, sebbene fare appello a un’evidenza nell’universo è ancora di vitale importanza per la persuasione, spesso dovremo partire da più lontano. Limitarsi a tirare fuori gli sviluppi delle “prove” durante il secondo secolo, o più avanti durante la Cristianità, con ogni probabilità non convincerà gli scettici di oggi. Se ignoriamo i cambiamenti culturali e l’immaginario sociale prevalente, i nostri appelli apologetici potrebbero “funzionare” con le persone già aperte al cristianesimo, ma non con quelle fortemente secolarizzate.

Una strada possibile, che ho cercato di rendere accessibile nel libro Telling a Better Story, è quella di iniziare dalle ineludibili caratteristiche di essere creati come persone—con un senso di bellezza, significato, scopo, moralità, colpa e desiderio. Sono inoltre fiducioso che, nel futuro, ci saranno altre aperture per la teologia naturale con l’allargarsi dei buchi narrativi nelle storie secolari. Ma per sfruttare al massimo in maniera creativa queste opportunità, avremo prima di tutto bisogno di tornare indietro nel passato ed essere ammaestrati nella saggezza della nostra tradizione.


Joshua Chatraw è il direttore di Center for Public Christianity e teologo presso Holy Trinity Anglican Church di Raleigh, Carolina del Nord. Tra i suoi libri ricordiamo Telling a Better Story, Apologetics at the Cross (scritto insieme a Mark Allen), e The History of Apologetics (curato insieme ad Alister McGrath e Benjamin Forrest).

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