Imparare a vivere con la perdita

“Danny sta per morire”.

I miei cugini dissero queste parole mentre eravamo seduti a tavola a casa di mia nonna. Danny, il mio fratello di 10 anni, era pure lui seduto a tavola. Sentendomi in dovere di difenderlo, con tutta la capacità persuasiva di un bambino di 8 anni, replicai: “No, non è vero!”

Danny aveva un tumore al cervello. Un tempo era stato un bambino vivace a cui piaceva giocare con il Lego, ad acchiapparella e creare scenette con la nostra sorella maggiore. Ora era tutto pelle ed ossa. Il suo corpo si stava lentamente consumando.

Immagino che i miei cugini stessero semplicemente ripetendo quello che avevano sentito dire dai loro genitori. E dubito che si siano resi conto di quanto le loro parole turbarono me e mio fratello. Come poi scoprii, le mie convinzioni riguardo la prospettiva di vita di mio fratello non erano sufficienti a tenere a bada il cancro. Le mie zie e i miei zii avevano ragione. Mio fratello non arrivò alla fine dell’anno.

Morte e vita

La morte ha un impatto potente su di noi. La morte è una prova anche per noi credenti che viviamo con la speranza della risurrezione e di essere riuniti con i nostri cari cristiani, in quanto essa altera la nostra esperienza in questo mondo, costringendoci a continuare a vivere senza qualcuno che amiamo, a continuare a vivere nonostante la perdita subita.

Anche se la morte è la forma più estrema di perdita, come il COVID ci ha tristemente ricordato, col passare del tempo facciamo i conti con altri tipi di perdite. Il COVID ci ha costretto a vivere anche con la perdita dei nostri normali ritmi sociali, liturgici e vocazionali. Abbiamo perso i contatti sociali che tanto desideriamo e di cui abbiamo bisogno anche per crescere come persone.

Alcuni non ce l’hanno fatta ad andare avanti, trovando troppo difficile affrontare la vita in un mondo disconnesso, il che mette in luce ancora di più le sfide di vivere con la perdita. Come continuiamo a vivere quando persone a noi care muoiono? Come andiamo avanti quando non possiamo avere contatti con gli amici o adorare fianco a fianco con i nostri fratelli?

Amputare me stesso

Un’immagine che descrive bene una perdita che si subisce è quella del veterano della Guerra Civile. Durante la Guerra Civile Americana, si calcola che i medici eseguirono 60.000 amputazioni; anzi, tre quarti di tutti gli interventi chirurgici effettuati in guerra erano amputazioni. Circa 45.000 amputati sopravvissero all’intervento, segnando una generazione con il ricordo visivo di perdite fisiche e personali. (Vedi “Amputation in the Civil War: Physical and Social Dimensions,” Journal of the History of Medicine and Allied Sciences, 454.)

Questi individui feriti dovevano imparare a vivere senza una parte di se stessi nella vita quotidiana. In alcuni casi non erano più in grado di camminare, scrivere, guadagnarsi da vivere, toccare il viso di una persona amata. Tali perdite impediscono una vita normale e sollevano domande su come, o se, andare avanti. Esse si scontrano con l’immagine che abbiamo di una vita benedetta da Dio e con le preghiere che offriamo a Dio.

Nel suo commentario sul libro di Giobbe, Christopher Ash osserva: “Forse per alcuni di noi c’è stato, o ci sarà, un tempo nella vita in cui tutto va male. Forse un tempo di dolore e fallimento, persino di calamità e miseria. E potrebbe essere che Dio nella sua compassione ci stia umiliando affinché ci affidiamo soltanto a lui”.

Di fronte a una perdita—la perdita di un arto, la perdita di un lavoro, la perdita di un fratello—è difficile credere che Dio è buono. Ma come dicevano i Puritani, Dio vuole diminuire la nostra dipendenza dal mondo e distogliere i nostri cuori dalle cose temporali affinché impariamo ad amarlo. La perdita, in un certo senso e in modo controintuitivo, può quindi portare dei benefici. A volte però mi chiedo se questi benefici non possono essere ottenuti in qualche altro modo. Eppure, quando raccogliamo i benefici di una perdita, spesso desideriamo ritornare a un tempo precedente a quella perdita, prima che diventassimo ciò che siamo.

Quando penso a mio fratello, spesso vorrei che fosse ancora qui. Mi chiedo come sarebbe oggi, se avrebbe avuto dei figli che ora giocherebbero con i miei, come potremmo goderci la vita insieme. Voglio cancellare la perdita. Ma ciò a cui raramente penso è che cancellare una perdita potrebbe creare un’altra perdita, almeno dal mio attuale punto di osservazione nel tempo.

Nel suo romanzo The Return of the Thief, Megan Whalen Turner riporta una conversazione tra un saggio chiamato il mago e un personaggio chiamato Eugenides, che (piccola anticipazione) perse la sua mano in un libro precedente della serie. Il mago chiede a Eugenides se desidera ancora la mano che ha perduto. Eugenides risponde:

Mi manca. Sono sicuro che ognuno ha qualcosa di se stesso che vorrebbe cambiare —  ballare meglio, cantare meglio, essere più forte o più alto. . . . Ma se non avessi perso la mano, ora sarei una persona completamente diversa. Voler riavere la mia mano sarebbe come volere che l’uomo che già sono sia sostituito da un estraneo. Sarebbe come desiderare di essere cancellato dall’esistenza. E chi lo vorrebbe?

Per il non credente, non c’è garanzia che la perdita lo renda una persona migliore. Ma per il credente, Dio fa cooperare tutte le cose per il suo bene, sia per la sua salvezza sia per la sua santificazione. Desiderare di cancellare la mia perdita vuol dire desiderare di cancellare me stesso, desiderare di cancellare l’uomo che Dio, nella sua misericordia, sta plasmando.

Character Arc

Questi temi riecheggiano una domanda antica: Come posso dare un senso alle cose negative che mi succedono quando esse contraddicono in modo evidente la bontà e la vita che caratterizzano il regno di Dio stabilito prima in Eden e poi ristabilito in Cristo?

Non possiamo certamente sottovalutare l’impatto della caduta nel mondo. Le perdite che sto descrivendo non sono il modo in cui il mondo dovrebbe essere. Ma è necessario professare qualcosa di più in un mondo post-caduta. Dio non è solo il Creatore; egli è anche il Redentore. Il suo modo di operare è trarre il bene dal male che abbiamo introdotto nell’ordine creato, ed egli usa la nostra perdita per piantare i semi della vita nei nostri corpi e nelle nostre anime spezzate. Egli ci sta preparando per qualcosa di più grande che va oltre questo mondo, e in un certo senso, perdiamo qualcosa di buono che Dio ha intessuto nella nostra storia quando cerchiamo di riportare la realtà a un tempo precedente la nostra perdita.

Questa speranza ci dà qualcosa a cui aggrapparci mentre camminiamo in un mondo in cui rovina e dolore sono certezze. La storia di Giobbe è un’immagine di restaurazione dopo una serie di perdite inimmaginabili, e la risurrezione di Gesù è la promessa che tale restaurazione avverrà per tutti quelli che sono in lui. Ecco perché Apocalisse si conclude non solo con la creazione di nuovi cieli e di una nuova terra e con l’assicurazione che non ci sarà più pianto, dolore e morte (Apocalisse 21:1, 4), ma anche con la “guarigione delle nazioni” (Apocalisse 22:2). In qualche maniera Dio sta collegando tutto il dolore e la perdita in questo mondo e ci sta trasformando in qualcosa che prima non eravamo—e che non potremmo essere senza la perdita.

Vorrei tanto che mio fratello fosse ancora vivo, anche se per vivo intendo vivo in piena salute, libero dal cancro. E forse questo indica un difetto nel mio pensare. Non riesco a vedere ciò che Dio stava facendo nella vita di mio fratello. Dio ha portato Danny attraverso la sofferenza fisica e la morte in uno stato migliore, libero dal peccato, dalla malattia e dalle catene della morte, perché lui è in Cristo.

Dio ha usato questa perdita anche per modellarmi; egli la sta usando per redimermi e santificarmi. E sarebbe sbagliato desiderare che l’opera che egli ha compiuto in me venisse cancellata. Cancellare la mia perdita significa anche, stranamente, cancellare il mio guadagno. Di fronte alla perdita, posso quindi scegliere di affogare nel mio pianto, o posso scegliere di camminare —o di arrancare e zoppicare—confidando nella bontà di Dio, accettando i modi in cui egli sta formando il suo popolo in nuove creature, e aggrapparmi alla speranza di una creazione restaurata.


David P. Barshinger (PhD, Trinity Evangelical Divinity School) è curatore editoriale di Crossway, autore di Jonathan Edwards and the Psalms (Oxford University Press, 2014), e coeditore (con Doug Sweeney) di Jonathan Edwards and Scripture (Oxford University Press, 2018).

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