Il problema delle opere missionarie orientate ai risultati

Recentemente ho parlato con un missionario che lavora tra un gruppo etnico non raggiunto dal Vangelo nel Nordafrica. Durante la nostra conversazione, mi ha espresso la sua preoccupazione riguardo ciò che a suo parere è la strategia missiologica più comune tra tutte le opere missionarie presenti nella sua regione, se non in tutto il mondo. Secondo le sue parole, i principi della semplicità e della riproducibilità sono diventati le cartine di tornasole della maggior parte degli strateghi della missione. “Se il tuo discepolato è semplice e i tuoi discepoli si stanno riproducendo”, essi dicono, “vuol dire che stai facendo la cosa giusta”.

Nel corso degli altri, ho sentito altri missionari dire: “Se una cosa funziona, non metterla in discussione. Non si può discutere con i risultati” o “Se un ministero o un metodo portano persone a Gesù, allora è evidente che vengono da Dio”. Affermazioni come queste rivelano che la crescita e la riproduzione non sono considerate solamente il fine ultimo della missione; esse ora sono lo standard mediante il quale si valutano i ministeri e si sviluppano nuove strategie.

Il mio timore è che la semplicità, la riproducibilità, e i modelli di moltiplicazione orientati ai risultati non producano vero frutto spirituale. La vera trasformazione viene perché essa è prodotta dallo Spirito.

Vanto superficiale o frutto spirituale

I risultati non sono tutto. Pensiamo agli avversari di Paolo a Corinto. Erano missionari che si vantavano del prodotto del loro lavoro (2 Corinzi 5:12). Essi si consideravano apostoli di Cristo e servitori di giustizia (2 Corinzi 11:13-15). Tuttavia, Paolo li riprese perché giudicavano esclusivamente in base all’apparenza esteriore, vivevano secondo la carne, e promuovevano l’obbedienza alla legge di Dio che non proveniva da una comprensione accurata del Vangelo. Essi conducevano le persone alle Scritture e a Mosè, ma il loro era un Gesù diverso, un Vangelo diverso, e uno spirito diverso (2 Corinzi 11:4). Qualunque fosse il loro vanto, esso era basato su valutazioni puramente superficiali. La giustizia dei loro discepoli, secondo Paolo, non era la giustizia che viene dalla fede. Di conseguenza, era del tutto legittimo che egli contestasse i loro risultati.

Per Paolo, la domanda fondamentale non è se il ministero di qualcuno produce risultati visibili, ma se questi risultati provengono dallo Spirito Santo oppure no. Secondo Paolo, ciò che rende il ministero del nuovo patto così glorioso è la presenza dello Spirito. La legge di Mosè possedeva una certa misura di gloria, ma era passeggera. Lo Spirito portò una gloria permanente attraverso un cambiamento interiore del cuore che produce il frutto genuino di una giustizia duratura. All’infuori dell’opera vivificante dello Spirito Santo nella vita di una persona, altri comandamenti da obbedire producono soltanto condanna e morte (2 Corinzi 3:4-11).

Questo era il disappunto principale del mio amico missionario nei confronti delle strategie missiologiche attuali. I loro modelli di discepolato e i loro contenuti si concentrano principalmente sull’obbedienza. Secondo la sua esperienza, il Vangelo viene facilmente oscurato da tali metodi. Egli è preoccupato dai musulmani che, quando si convertono a Cristo, si stanno semplicemente convertendo a un diverso sistema religioso di opere. Possono pregare e donare in modo diverso. Possono persino esaltare i comandamenti di Gesù e trasmetterli ad altri. Tuttavia, stanno semplicemente continuando a seguire una religione basata sulle opere, pur modificata. Possono avere imparato l’obbedienza, ma egli si chiede se conoscono Cristo e se hanno lo Spirito.

Un contrasto cruciale

Al centro della difesa di Paolo del ministero del nuovo patto vi è la realtà che, mediante lo Spirito, la vera giustizia è stata manifestata (Romani 3:21). Tale giustizia si trova oggettivamente nell’opera di Gesù, il quale ha vissuto una vita di perfetta obbedienza e ha dato se stesso come sostituto per i peccatori, lui giusto per gli ingiusti (2 Corinzi 5:21; 1 Pietro 3:18). Questa buona notizia è il fondamento di tutta la nostra obbedienza.

Tuttavia, la vita cristiana di giustizia non si comincia semplicemente con la fede e con lo Spirito, con la carne che ci trascina verso il traguardo (Galati 3:3). La trasformazione spirituale dall’inizio alla fine, insieme alla conformità crescente all’immagine di Dio, avviene attraverso l’atto continuo di contemplare la gloria di Dio nel Vangelo (2 Corinzi 3:18). Il risultato è che i credenti del nuovo patto manifestano un frutto di giustizia permanente nelle loro vite (2 Corinzi 9:10).

Il contrasto qui è cruciale. Anche gli oppositori di Paolo stavano chiedendo giustizia e obbedienza. Ma obbedienza a quale scopo? Giustizia con quale mezzo? Paolo non contestava il fatto che i loro ministeri portassero “frutto” o meno; egli metteva in dubbio la loro fedeltà. Se il mio amico missionario del Nordafrica ha ragione, allora una versione di quell’antico problema di Corinto costituisce tuttora un pericolo in gran parte del mondo oggi.

La nostra ambizione missionaria non può consistere semplicemente in una strategia di riproduzione. Anche se c’è crescita, non dobbiamo valutare i ministeri solamente in base alle apparenze esterne o le pratiche missionarie in base ai valori mondani. Non dobbiamo giudicare secondo la carne.

La chiamata a fare discepoli non è semplicemente una chiamata ad assicurarsi che le persone obbediscano alla Parola di Dio. La lettera di raccomandazione di ogni missionario e la speranza di ricevere un giorno lode da Dio si trovano nei risultati visibili di vite trasformate dallo Spirito invisibile, evidenziati non solo dal numero di conversioni ma da persone che perseverano nella giustizia e rifiutano la falsità. Questo è il nostro obiettivo, e per raggiungerlo dobbiamo riconoscere qual è lo strumento che Dio usa in questa missione.

Questo strumento è l’opera di santificazione che lo Spirito Santo compie in ognuno di noi mentre contempliamo la gloria del Signore riflessa nel volto di Gesù. Veniamo trasformati sempre più nella sua stessa immagine, di gloria in gloria, fissando lo sguardo sul Vangelo, e non solo impegnandoci a obbedire (2 Corinzi 3:18).


Elliot Clark (MDiv, The Southern Baptist Theological Seminary) ha lavorato in Asia Centrale come fondatore di chiesa interculturale insieme alla moglie e ai suoi figli. Ora lavora con Training Leaders International per equipaggiare leader di chiesa indigeni all’estero e pastori emigrati negli U.S.A. È l’autore di Evangelism as Exiles: Life on Mission as Strangers in Our Own Land (TGC, 2019) e Mission Affirmed: Recovering the Missionary Motivation of Paul (Crossway, 2022).

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