Dovremmo cancellare Karl Barth, Martin Lutero e Jonathan Edwards?

Ci sono due tendenze oggi nella nostra società in fatto di teologi molto stimati vissuti nel passato.

La prima è quella di ricorrere all’agiografia, ossia far diventare i nostri padri nella fede degli eroi con tanto di aureola e guardare alle loro vite attraverso una lente sfocata che attenua i loro errori, peccati e lati negativi, lasciando l’impressione che le loro intuizioni e successi accademici siano più importanti di ogni sottile “pecca” che uno storico moderno potrebbe fare notare.

La seconda è l’istinto dettato dalla cancel-culture di rimuovere dal passato chiunque abbia avuto opinioni o commesso azioni che oggi sono ritenute “problematiche” e respingere qualsiasi appello a considerare gli aspetti del loro lavoro che potrebbero essere considerati utili perché i loro peccati hanno screditato o cancellato tutte le cose buone che hanno fatto e tutti i loro meriti.

Nessuna di queste due tendenze procura un beneficio alla chiesa. Nessuna tiene sufficientemente conto di quello che la Bibbia insegna sulla natura dell’uomo o sulla natura parassitaria del peccato che si mescola al bene o sui diversi livelli della santificazione. Entrambe le tendenze richiedono una dose maggiore di complessità. Il problema è che, in un mondo che oscilla da un’agiografia semplicistica alla fretta eccessiva di cancellare i suoi eroi, si finisce col trattare i teologi allo stesso modo, liquidandoli immediatamente sminuendo il loro contributo o accogliendo il loro contributo acriticamente minimizzando il loro peccato. Possiamo fare di meglio.

Possiamo guardare dall’alto in basso i teologi del passato per via dei loro peccati o possiamo guardare più in profondità. Guardare più in profondità ci impone di tenere conto dei diversi tipi di peccato, di come questi peccati potrebbero aver influenzato la visione del teologo e quali tesori possiamo ancora ricevere da chi ci ha preceduto (benché imperfetto), usando saggezza e discernimento.

Il dilemma Karl Barth 

È stata un’esperienza sconcertante per me imbattermi qualche anno fa nella straordinaria biografia di Karl Barth scritta da Christiane Tietz proprio mentre stavo leggendo alcuni libri su come molti padri della chiesa si approcciavano alla teologia.

Barth è forse il teologo cristiano più influente dello scorso secolo, eguagliato soltanto da Joseph Ratzinger (Papa Benedetto XVI). Ma ora che i lati nascosti della vita di Barth sono venuti alla luce, sappiamo che egli ha vissuto una relazione adultera con la sua assistente, Charlotte von Kirschbaum, arrivando persino a organizzare le sue condizioni di vita attorno a questo peccato, a scapito della moglie, Nelly. Quel che è peggio, egli diede delle giustificazioni teologiche contorte e bizzarre alla sua ostinazione nell’infedeltà.

Samuel Parkison recentemente ha affrontato questo dilemma a viso aperto, chiedendosi come possa avere senso affermare una cosa del genere: "È una cosa terribile che egli fosse un marito adultero e infedele, ma certamente era un grande teologo e un dono alla chiesa”. Parkison ha letto i padri della chiesa e concorda su quello che essi dicono riguardo il ruolo della virtù nella vita di un teologo, ossia che “l’infedeltà arbitraria e abituale” non può che influenzare in modo negativo la teologia di una persona. Gregorio Nazianzeno sosteneva che la pietà personale era fondamentale per la teologia; solo chi è puro di cuore può assorbire il fulgido splendore di Dio. La teologia non è un esercizio astratto, puramente accademico. Persino Barth prese atto di questa realtà in una lettera nella quale si chiedeva in che modo la sua “esperienza” peccaminosa avrebbe potuto influenzare le sue riflessioni teologiche.

Teologi e purezza di cuore

Dovremmo esigere rettitudine morale dagli studiosi del passato? C’è qualcosa che possiamo imparare dai teologi le cui vite, spesso in modo detestabile, non hanno rispettato la fedeltà biblica?

Se invece di guardare dall’alto in basso il passato guardiamo in profondità, possiamo essere d’accordo con i padri della chiesa e sostenere lo standard elevato di una “purezza di cuore sempre maggiore” tra coloro che cercano di investigare le profondità dei misteri di Dio. Allo stesso tempo, possiamo prendere atto di come la biografia di una persona ne influenzi la teologia e come fare teologia sia sempre in qualche modo un’attività influenzata dal peccato.

La risposta non consiste nell’isolare la questione riguardante la santità personale come se facessimo teologia alla stregua di un sistematico o di uno scienziato illuminista. Il nostro carattere fa la differenza nel nostro modo di fare teologia, interpretare la Scrittura o fare applicazioni. I padri della chiesa avevano ragione: facciamo bene a prestare attenzione al modo in cui la presenza di un peccato persistente influenza il modo in cui pensiamo a Dio.

Oggi molti credenti evitano di riflettere su come la teologia di una persona è influenzata dal peccato, perché questo solleva ogni sorta di domande scomode sui teologi del passato (specialmente quelli coinvolti in varie forme di suprematismo bianco). In reazione alla mentalità della cancel-culture che spesso liquida troppo in fretta chi ci ha preceduto in termini acritici di “tutto o niente”, potrebbe essere più facile scivolare nel metodo illuminista di tenere separati lo studio accademico e la pietà personale che dare ascolto ai padri della chiesa pre-moderna al riguardo.

È una mossa sbagliata. No, non sto sostenendo la cancel culture per i teologi importanti, nemmeno per Barth. Penso invece che dovremmo riflettere in modo più attento e critico su come i peccati di teologi influenti potrebbero avere influenzato negativamente il loro ragionamento teologico e le loro conclusioni. Come lo storico David Steinmetz ha detto: “Lo studio della storia rende la chiesa libera dal suo passato: libera di attingere dalla saggezza del passato, quando è possibile, e di passare oltre l’infedeltà e il peccato, quando si deve”.

Tre tipi di teologi peccatori

A tal fine, dovremmo differenziare tra vari tipi di peccato. Alcuni cristiani si oppongono a questa idea, preferendo pensare che tutti i peccati sono uguali perché ogni peccato —grande o piccolo—ci separa da Dio.

Tuttavia, la tradizione cristiana ha sempre sostenuto che alcuni peccati sono “più odiosi agli occhi di Dio rispetto ad altri”, come dice il Catechismo maggiore di Westminster (Domanda 151).

Il peccato può essere considerato più grave quando la persona che pecca è anziana e viene presa come esempio, o quando i peccati sono più direttamente blasfemi verso Dio, o quando il peccato, dopo essere stato concepito nel cuore, viene partorito in una serie di parole e azioni scandalose di cui non ci si ravvede. Il Catechismo cita anche i peccati contro natura, l’andare contro la coscienza e la rottura deliberata e impudente dei voti matrimoniali.

Alla luce di questa discussione, è possibile osservare diverse declinazioni di peccato tra i teologi del passato.

1. Ribellione volontaria

Iniziamo con Barth, che appartiene alla categoria dei teologi che hanno persistito nel peccato volontario sapendo di peccare. Anche Paul Tillich, un uomo le cui imprese extraconiugali erano note persino ai suoi giorni, potrebbe far parte di questa categoria. Questi sono tra gli esempi più eclatanti di peccato, quando un teologo persegue attività illecite in modo abituale e non sembra interessato al ravvedimento o al ristabilimento.

2. Cecità colpevole 

Una seconda categoria include pastori e teologi che in diversa misura sono stati complici di peccati, malvagità e ingiustizie ai loro tempi. Il loro peccato è stato risultato di una cecità colpevole. Le idee e gli scritti anti-semiti di Martin Lutero rientrano in questa categoria, come pure la difesa e il coinvolgimento di Jonathan Edwards nella schiavitù (pur condannando la tratta degli schiavi!). Ironicamente, in questi casi, sia Edwards che Lutero ci esorterebbero a non eliminare né ridurre la loro responsabilità morale. Essi affermerebbero con insistenza che anche se non vedevano il loro peccato come tale (ed erano, in questo senso, spiritualmente ciechi), erano comunque colpevoli di quella condizione di cecità perché spesso ci sono verità che il cuore non vuole vedere.

3. Lotta contro il peccato

Una terza categoria include quei teologi le cui vite sono state caratterizzate dalla lotta contro il peccato, tuttavia questi ultimi erano noti per il loro combattimento contro il peccato, la confessione del loro peccato nel contesto della chiesa, e la loro ricerca di abbandonare il peccato, anche se a volte vi ricadevano. Non dovremmo sminuire il peccato in alcun modo, in quanto influisce sempre negativamente sulle nostre vite e sulle vite di chi ci circonda. Ma in questo caso, il teologo vuole rifiutare il peccato ed essere liberato da esso. Si leggano le confessioni di alcuni scrittori Puritani o, andando più indietro, di Anselmo o Agostino, e si vedrà che essi combattevano per la santità in mezzo al fango di questo mondo decaduto. Certo, il peccato rimane, ma il teologo cerca di crescere nella somiglianza a Cristo.

Complicare le categorie

Ammetto che le categorie che ho fornito hanno diversi limiti. Primo, tendiamo a “congelare” una persona in un particolare momento, quando ci può essere un movimento lontano dal peccato o verso di esso nel tempo. La ribellione volontaria in un certo periodo della vita può diventare una lotta contro il peccato in un altro, con germogli di ravvedimento che spuntano dal terreno arido. Dall’altro lato, una cecità colpevole può indurire il cuore fino a tramutarsi in ribellione volontaria, specialmente quando qualcuno ha sfidato un teologo per la sua complicità nell’ingiustizia.

Secondo, anche se siamo d’accordo sul fatto che la ribellione volontaria è forse la categoria più preoccupante e disdicevole, gli effetti dei teologi appartenenti alla categoria della cecità colpevole possono essere altrettanto devastanti e talvolta peggiori (si pensi agli appelli del Nazismo a Lutero negli anni che hanno portato alla Seconda Guerra Mondiale, o ai teologi americani posteriori che hanno protratto il male della schiavitù sulla scia di Edwards). La terza categoria probabilmente descrive la maggioranza dei teologi—coloro che non conservano la purezza di cuore e tuttavia lottano contro il peccato, in accordo con Dio e la sua Parola.

Terzo, i peccati che secondo noi "squalificano all’istante” una persona molto spesso non dipendono dalle Scritture ma dal nostro modo di leggere le Scritture, che è condizionato dalla cultura e dal tempo in cui viviamo. (Si pensi al motivo per cui alcuni cristiani africani credono che farsi un tatuaggio sia un’offesa più grave dell’adulterio!) Molti personaggi biblici—Noè, Abramo, Mosè, Davide, Salomone, Giona—offrono una finestra sia nel peccato grave che nella salvezza gloriosa.

Alcuni pastori e teologi, benché non perfetti, a volte vivono in modo coerente con la loro teologia. La chiesa antica spesso li chiamava “santi”, e anche se non facciamo parte di tradizioni cristiani che prevedono una “beatificazione” ufficiale, sappiamo riconoscere quando la bellezza e la gloria della vita di una persona è conforme alla sua confessione di fede e al suo studio della teologia. Come regola generale, abbiamo buone ragioni per considerare più affidabili le riflessioni teologiche di una persona la cui vita è caratterizzata dalla santità, sia nella sfera privata che in quella pubblica.

Farsi domande più profonde

Trattare la teologia in termini di “tutto o niente” non è la cosa ideale. Non è saggio stroncare i teologi del passato o accettarli in modo acritico. I nostri antenati nella fede, benché peccatori, hanno comunque qualcosa da insegnarci.

L’impulso sui social media è di rinchiudere tutto e tutti in categorie facili e comode in modo da sapere subito chi sono gli “eroi” e chi i “cattivi”, ma la vita reale è straordinariamente complicata. Alcuni di quelli che potremmo chiamare "cattivi" possedevano virtù eroiche, mentre quelli che potremmo chiamare “eroi” avevano perfide macchie di peccato.

Guardare in profondità richiede invece da parte nostra di fare attentamente i conti con gli effetti distorsivi del peccato nella visione teologica dei teologi del passato. Onsi Kamel ci consiglia di “guardare ai loci di pensiero specifici e al peccato specifico, e poi indagare in particolare su come il pensiero è stato significativamente influenzato dal peccato. E poi ignorare, mettere in guardia contro o trattare con attenzione quelle dimensioni di pensiero”.

Dovremmo chiederci . . .

In che modo il feroce anti-semitismo di Lutero influenza il suo approccio all’Antico Testamento? La sua visione degli Ebrei ha condizionato le sue distinzioni nette tra legge e vangelo o il suo approccio alla società basato sui due-regni?

In che modo lo schiavismo di Edwards ha influenzato la sua comprensione della misericordia e della giustizia? Come ha alterato il suo modo di comprendere la Bibbia o la sua visione di Dio? Come ha plasmato la sua visione di come la società deve essere ordinata o la sua dottrina dell’umanità? Il fatto che il figlio di Edwards divenne un fervente abolizionista complica queste domande?

In che modo l’adulterio di Barth potrebbe avere influenzato la sua visione del peccato e della grazia? La sua ribellione volontaria e ginnastica teologica diminuiscono la sua comprensione del giudizio di Dio? Hanno svolto un ruolo in alcune delle sue riflessioni semi-universalistiche?

La santificazione è spesso irregolare, e posso capire se questo articolo complica la questione e suscita più domande che risposte. È per questo che abbiamo bisogno di più dibattiti sui teologi del passato, non di meno. Di più complessità, e non di risposte semplicistiche. Non rendiamo un servizio alla verità con l’agiografia o con eccelsi profili biografici che sminuiscono i peccati dei teologi del passato, né rendiamo un servizio alla verità cedendo all’impulso di vedere solo i peccati e non i segni di santificazione nelle vite di questi pensatori influenti.

Faremmo meglio a prendere atto della complessità della condizione umana, riconoscendo dove anche i teologi più rispettati potrebbero avere albergato del peccato o cecità spirituale che ha influenzato la loro visione teologica, e poi impegnarci nuovamente a ricercare la santificazione senza la quale non possiamo vedere il Dio che desideriamo studiare e adorare.


Trevin Wax è il vice presidente della ricerca e sviluppo delle risorse presso North American Mission Board e docente esterno della Cedarville University. Ex missionario in Romania, Trevin è editorialista di The Gospel Coalition e ha lavorato per The Washington Post, Religion News Service, World e Christianity Today. Ha insegnato corsi sulla missione e ministero presso il Wheaton College e ha tenuto conferenze su cristianesimo e cultura presso la Oxford University. È autore di diversi libri. Lui e sua moglie Corina hanno tre figli. Puoi seguirlo su Twitter, Facebook o ricevere i suoi articoli via email.

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