Quando essere mamma è un po' come morire

Una delle più grandi sfide della genitorialità, e in particolare della maternità, è la mancanza di un mansionario che elenchi i nostri compiti. Noi mamme non timbriamo il cartellino, perché i nostri figli non lo timbrano. Noi mamme non abbiamo una postazione di lavoro fissa, perché il nostro posto di lavoro è la nostra casa. Le cose da fare sono sempre lì, che aspettano di essere fatte. I bambini sono sempre lì, bisognosi delle nostre attenzioni, del nostro amore e della nostra istruzione.

E’ un ciclo infinito di cura.

Il lavoro interminabile e oscuro delle mamme ha ispirato un articolo pubblicato di recente dal New York Times, intitolato “A Job Description for the Dumbest Job Ever” (Il mansionario del lavoro più stupido in assoluto). In esso, l’autrice presenta il mansionario della maternità con frasi come: “Questa è una posizione di massima importanza, eppure in qualche modo è anche la meno visibile e/o rispettata dell’intera organizzazione”, e “Anche se avrai coordinato, programmato e fatto quasi tutto, aspettati di crollare a faccia in giù nel letto ogni sera pensando di non aver concluso praticamente nulla”.

Molte madri si riconosceranno in questo ironico mansionario.

Le reazioni all’articolo sono state contrastanti; alcuni l’hanno criticato per la sua apparente bassa concezione della maternità. Io non l’ho letto in questo modo. Mi è sembrato piuttosto un grido che viene dal cuore. L’ho visto come un dialogo interiore, un tentativo da parte dell’autrice di convincersi che quello che fa come mamma è veramente importante.

Mi ci sono immedesimata forse perché mi ritrovo in quella descrizione. Ho quattro figli di età compresa tra 11 mesi e 5 anni. Lavoro e servo molto senza ricevere un grazie. Faccio molte cose senza ricevere nulla in cambio (almeno apparentemente).

Spesso penso di condurre un’esistenza subumana. Qualche settimana fa mi lamentavo con mio marito che in certi giorni non so perché cerco di mettermi dei vestiti normali o di sistemarmi i capelli. Ho persino scritto un libro sul lavoro domestico, in parte per aiutare me stessa a vedere la gloria nei miei compiti quotidiani.

Non c’è molta gloria evidente nel mansionario di una mamma, ma va bene così.

Vai avanti. Chiamala morte.

Invece di presentare un’immagine fuorviante della maternità (o della genitorialità in generale) fino a portarla alla perfezione, dovremmo chiamarla per quello che è: una forma di morte. Gesù dice che dovremo rinunciare a qualcosa per ottenere qualcosa di migliore (Matteo 10:39; 16:25; Marco 8:35; Luca 9:24; Giovanni 12:24), e come genitori dovremmo fare proprio questo: morire affinché un altro possa vivere.

Sin dal momento del concepimento, tutto il tuo corpo è consumato affinché un altro essere umano possa vivere. Le notti insonni, l’allattamento, e cure ininterrotte logorano quei primi mesi e anni.

Più avanti, la morte subentra sotto forma di morte emotiva. Magari i tuoi figli non ti spremono più fisicamente, ma più li conosci e più li ami —e più possono spezzarti il cuore con una decisione sbagliata (o tutta una vita di decisioni sbagliate).

Essere mamme è una chiamata alla morte. Puoi sentirti realizzata, ma non come il mondo lo intende. Realizzarsi come mamme significa seguire la via della croce, deporre la tua vita affinché un altro possa vivere.

Essere madri è umiliante

Il mansionario del New York Times ha fatto venire allo scoperto qualcosa con cui ho combattuto negli ultimi mesi. Prima di diventare mamma, avevo un’immagine romantica del sacrificio che avrei dovuto fare per mettere al mondo figli e crescerli. Era diventata persino un idolo.

Ora però che mi trovo nel bel mezzo della maternità, la maggior parte dei giorni non sopporto il sacrificio. Non mi piace il servizio che mi è richiesto. So che è meglio dare che ricevere (Atti 20:35). Credo nelle parole di Gesù sulla necessità di perdere la mia vita per ritrovarla, ma il più delle volte tutto mi sembra davvero una morte. A volte mi sembra di non fare nessuna scoperta, a meno di non voler considerare una scoperta lo yogurt della colazione appiccicato nei capelli.

Quando diamo un’immagine romantica al ruolo di madre, usando parole come “la chiamata più alta”, “più appagante”, o “ciò per cui sei stata creata”, corriamo il rischio di fraintendere una chiamata complessa. La maternità è gioia mista a dolore, appagamento misto a senso di vuoto, vita mista a morte.

Non voglio disilludere nessuno, ma una sana dose di realismo biblico è utile a tutte le mamme, specialmente a quelle che finiscono le loro giornate sentendosi sconfitte dai compiti in questione.

La maternità è, infatti, solo uno dei tanti aspetti della vita in un mondo perduto pieno di tali apparenti contraddizioni. Qualunque sia il nostro lavoro, dobbiamo continuamente fare i conti con l’umiliante realtà della vita nel mondo dopo Genesi 3.

La maternità è dolorosa 

C’è un motivo perché la Scrittura descrive la morte come la via che conduce alla vita. In Romani 12:1, Paolo dice che tutto quello che Cristo ha compiuto per noi ha delle implicazioni: offrite il vostro corpo in sacrificio vivente. Qualunque sia il percorso che Dio ha scelto per noi, che sia la maternità, il ministero a tempo pieno, il lavoro secolare, o una combinazione di tutti e tre, dobbiamo sempre offrire il nostro servizio come un sacrificio al Signore.

Egli è morto per noi, perciò noi viviamo per lui, il che spesso sembra morte agli occhi del mondo. Rinunciamo alla nostra gloria per permettere che le nostre vite mostrino agli altri Cristo, colui che è degno di tutta la gloria e la lode. La nostra vita riguarda lui, non noi.

La verità è che probabilmente ho sempre pensato che la maternità mi avrebbe fatto sentire meglio. Ma la morte non agisce in questo modo; essa ti costa qualcosa di prezioso. Perdere la vita fa male.

La maternità è vivificante

Qualche anno fa, mio marito ha indicato in 2 Corinzi 4:12 il versetto che deve caratterizzare la nostra famiglia. Dopo aver esposto tutto quello che aveva sofferto per la chiesa di Corinto, Paolo dice: “Di modo che la morte opera in noi, ma la vita in voi”.

Quando i bisogni dei miei figli mi costringono ad alzarmi per l’ennesima volta nel cuore della notte, o il mio neonato rigurgita sulla mia camicetta nuova e la rovina, o i miei piani per scrivere qualche ora la mattina sono ostacolati da un bambino che si sveglia presto, e una parte di me muore con ognuna di queste cose, questo è ciò che Gesù aveva in mente quando ci ha detto che dobbiamo morire. La morte opera in me, affinché la vita operi in loro.

Per essere chiara, non posso salvare i miei figli. Il mio sacrificio mostra solo il Salvatore che può salvare le loro anime. Certo, questo sacrificio appare “stupido” al mondo. Non ha senso perdere la tua vita, rinunciare alle tue aspirazioni, o morire per un altro, ma questa è la via della croce.

Questo è il modo inaspettato in cui Dio opera nel mondo (Isaia 55:8–9; 1 Corinzi 1:18): Cristo morì, in modo che il suo popolo potesse vivere. Noi moriamo in modo che altri possano conoscere lui.

Può essere un mansionario stupido, ma le vie di Dio sono non sono le nostre vie.


Courtney Reissig è l’autrice del libro Glory in the Ordinary: Why Your Work in the Home Matters to God e The Accidental FeministRestoring Our Delight in God’s Good Design. E’ sposata con Daniel e ha quattro figli. Insieme servono la Midtown Baptist Church a Little Rock (Arkansas). Puoi leggere altri suoi articoli sul suo blog o puoi seguirla su Twitter.

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