Un vocabolario per i giorni bui della vita

Era tardi. Così tardi, che era quasi presto. Stavo andando su e giù sul mio pavimento irrimediabilmente impolverato da circa un quarto d’ora. Stavo singhiozzando.

Quel giorno, mi ero trovata a tu per tu con la realtà del traffico di esseri umani. Nel paese in cui mi trovavo per servire il Signore, lo chiamano matrimonio infantile. Non c’erano autorità da chiamare, nessun modo per salvarla. Se l’erano portata via.

Fremevo dalla rabbia, un’ira impotente, ma ero anche spaventata. Non avevo mai assistito a tanta depravazione, e la mia fede non aveva risposte a questo. Ed ero una missionaria, per amor del cielo (letteralmente)! Ero andata in Asia meridionale per condividere il vangelo, ed eccomi lì, che riuscivo a malapena a credere io stessa.

Qualche giorno dopo, mi trascinai nell’ufficio del mio mentore e balbettai qualcosa che lei fortunatamente riconobbe come un grido d’aiuto. Il team sanitario della mia missione mi visitò, e mi diagnosticò una depressione situazionale e mi prescrisse un percorso di recupero.

In breve, quella notte non fu fatale, ma da allora ho imparato che quel genere di cose non sono nemmeno eventi eccezionali. Le nostre comunità stanno annegando in sofferenze indicibili. Abbiamo un disperato bisogno di un linguaggio biblico per colmare il divario tra il dolore che sentiamo e il Dio che conosciamo, ed è quello che Mark Vroegop (pastore della College Park Church di Indianapolis, Indiana, e consigliere di TGC) ha fatto nel suo libro Dark Clouds, Deep Mercy: Discovering the Grace of Lament.

Imparare il lamento

“Il lamento”, per usare le parole di Vroegop, “è una preghiera fatta nel dolore che conduce alla fiducia” (28). Egli inizia rintracciando nei salmi questo linguaggio in preghiera del “rivolgersi a Dio, lamentarsi, chiedere e confidare” (29). Il primo atto del lamento (rivolgersi a Dio) consiste semplicemente nello scegliere di continuare a pregare. Anche se tutto quello che riusciamo a fare è cadere ai piedi di Cristo e crollare in un mare di singhiozzi, questo è in se stesso un atto di fede. Ma non dobbiamo rivolgerci a lui con luoghi comuni servili, perché il secondo atto (lamentarsi) “ci dà il permesso—addirittura ci incoraggia—a esporre le nostre lotte, anche se sono con Dio stesso” (48).

Camminando avanti e indietro su quel pavimento quella notte, mi chiedevo se un Dio che permetteva la schiavitù sessuale mascherata da matrimonio fosse un Dio che valesse la pena pregare. Mi domandavo, insieme al salmista, come il mio Dio poteva abbandonare il suo popolo (Salmo 10:1), dimenticare la loro afflizione (Salmo 44:23-24), e permettere agli empi di trionfare e restare impuniti (Salmo 94:3). Quello che non sapevo era che avevo il diritto di farlo.

Nella Scrittura c’è posto per dire a Dio in modo umile e onesto quando ci sembra che egli abbia fallito nel suo compito. Ancora più glorioso, c’è posto per chiedere che egli si levi e faccia qualcosa. Secondo Vroegop: “Il dolore ha la capacità di risvegliare in noi il bisogno dell’aiuto di Dio” (60), e il lamento è l’atto con cui si può chiedere quell’aiuto, e chiederlo con coraggio. Il salmista chiese a Dio di fare giustizia (Salmo 83:16-18), di ricevere misericordia (Salmo 51:1), ristoro (Salmo 80:3), e vendetta (Salmo 35:23-24)—e noi abbiamo il privilegio di fare la stessa cosa.

Pur avendo il diritto di chiedere a Dio che egli agisca secondo il suo carattere, abbiamo anche la responsabilità di credere che lo farà. Il lamento ci impone di ricordare ciò che Dio dice di essere, e poi di aggrapparci a quella verità. “Confidare” è il quarto movimento del lamento, ma non quello finale. Il dolore è una realtà della vita e continuerà a esserlo fino al ritorno di Cristo, e “dobbiamo fare costantemente ricorso al lamento in modo che esso ci porti a continuare a confidare” (74). Vroegop non ci dà un programma in 12 passi o un metodo per fare cordoglio che usa artificiosamente la Bibbia, ma piuttosto un vocabolario accessibile per vivere nello spazio di tempo tra il dolore del nostro mondo e la promessa della gloria. 

Lamento individuale 

Il quadro proposto da Vroegop è significativo per la sua grande versatilità. Ogni volta che avvertiamo una tensione tra il mondo in cui viviamo e quello che ci è stato promesso, possiamo ricorrere al lamento. Esso può modellare le nostre preghiere in seguito a una tragedia e può determinare ciò che diciamo in una situazione di conflitto. Possiamo farne uso per invocare il perdono nel mezzo del nostro peccato, o per chiedere giustizia per il peccato di qualcun altro. Da una brutta giornata in ufficio alla caduta delle nazioni, non c’è dolore troppo grande o troppo piccolo per il lamento. Ogni lamento è legittimo, e ogni sofferenza, dolore e disgrazia diventa un’opportunità per gloriarsi ancora di più nel vangelo di Cristo.

Per Vroegop dobbiamo fare attenzione a non radicare la nostra fiducia in una specie di karma che ci ripaga in questa vita, ma nella speranza migliore dell’eternità. Anche se Dio certamente può e vuole redimere i nostri dolori in modi meravigliosi ed evidenti, ci sono cose che niente di meno della morte di Dio può ripagare, e niente di meno della sua risurrezione può redimere: la rottura di un matrimonio, l’abuso su un bambino, il suicidio di un nonno.

Il lamento ci permette di trasformare il nostro dolore nella sinfonia della redenzione cosmica, poiché “il lamento è il linguaggio di un popolo che conosce l’intera storia—la storia del vangelo” (150). Il lamento offre ampio spazio per riconoscere l’immensità e la profondità della nostra sofferenza, ma ci ricorda anche continuamente che l’amore di Cristo è ancora più profondo e vasto, e nel farci ricordare questo “ci aiuta a osare a sperare ancora e ancora e ancora” (112), mentre aspettiamo con ansia che Cristo faccia nuove tutte le cose (Apocalisse 21:5).

Lamento comunitario 

Il lamento è forse ancora più efficace sotto forma di pratica comunitaria. Dopotutto, Lamentazioni è stato scritto in seguito al giudizio di Dio sulla nazione di Giuda a causa dell’idolatria e dell’ingiustizia dilagante, perciò quale testo biblico potrebbe guidare meglio una comunità che deve fare i conti con il suo tracollo?

“Il lamento”, sostiene Vroegop, “è potenzialmente un primo passo nell’unire un popolo quando ferite e incomprensioni sono nell’aria” (184). Quando “i problemi sono talmente complessi e il dolore così vivo”, egli osserva, pastori e laici allo stesso modo si lasciano troppo facilmente ridurre al silenzio dallo spavento, per paura di dire cose sbagliate (185). Ma il lamento ci permette di rompere questo silenzio con onestà e compassione. Ci mette in condizione di nutrire solidarietà per la nostra comunità nel riconoscere la colpa che ci accomuna. E ci mostra la verità che Dio può redimerci, così come egli ha redento la nazione peccatrice di Giuda.

Vroegop propone che le chiese usino il lamento per aprire gli occhi e i cuori a problemi culturali come l’abuso sessuale, il traffico di esseri umani e l’aborto (131–32). Incoraggia i credenti a “parlare con Dio delle sfide generazionali della povertà, del divorzio, delle gravidanze precoci, del razzismo, della disoccupazione, della tossicodipendenza, e di ogni altro male sociale che viene alla mente” e a “permettere che il lamento li renda più sensibili ai problemi che li circondano” (132). Il lamento, suggerisce, può scuoterci dall’indifferenza e, mediante la compassione, spingerci ad agire a favore delle nostre comunità: “Sii mosso al lamento; sii mosso alla preghiera, e sii mosso ad agire—per fare la differenza” (132).

Vroegop osserva che il lamento non basta per porre rimedio a mali sistemici complessi e ci ricorda che “occorre fare molto lavoro nell’ascoltare, nel conoscere, nel combattere l’ingiustizia e nel promuovere la speranza” (186). Il lamento può essere però “un punto di partenza . . . uno strumento di Dio per dare voce al dolore complesso e opprimente” (186) e, soprattutto, esso fonda la nostra speranza non in strategie, procedure o uomini politici, ma nella potenza infinita di Dio, l’unico capace di compiere l’opera impossibile di redimere dei ribelli. 


Jaclyn S. Parrish è una scrittrice, redattrice e addetta ai social media per International Mission Board. Ha un suo blog Gold without Glitter. Puoi seguirla su Twitter.

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